Audio per il Cinema

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F.Calabrese
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Audio per il Cinema

#1 Messaggio da F.Calabrese » martedì 23 ottobre 2012, 23:32

La giornata di domani sarà assai impegnativa, per me, ma vi anticipo che ho intenzione di raccogliere il suggerimento di Madman ed approfondire le questioni di Audio cinematografico, perché è possibile che proprio da lì provenga la soluzione al problema delle registrazioni ipercompresse...

A domani !

Saluti
F.C.

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Re: Audio per il Cinema

#2 Messaggio da audiofilofine » mercoledì 24 ottobre 2012, 6:48

il sonoro ottico ad area variabile se non ricordo male non aveva limiti dinamici...
ciapàl sòt che lè un biscott

F.Calabrese
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Re: Audio per il Cinema

#3 Messaggio da F.Calabrese » mercoledì 24 ottobre 2012, 11:35

audiofilofine ha scritto:il sonoro ottico ad area variabile se non ricordo male non aveva limiti dinamici...
Dipende...

La pista ottica delle pellicole 35 mm. era minuta, per non sottrarre spazio all'immagine... ma c'era chi registrava utilizzando l'intera ampiezza della pellicola, come venne fatto per "Fantasia"... e lì la qualità dell'Audio, maiuscolo, doveva essere semplicemente stratosferica...

Dal post successivo provo a fare un esperimento, vi posto -pagina per pagine- la mia Linea Guida n.15 per l'Apat, che racconta di tutti i problemi dinamici del Cinema.... Sono 26 pagine...

Buona lettura (se ce la fate...)

Saluti
F.C.

P.S.: Mancheranno i grafici, ma sono pochi... e solo al termine.

F.Calabrese
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Re: Audio per il Cinema

#4 Messaggio da F.Calabrese » mercoledì 24 ottobre 2012, 11:37

A.P.A.T. - Linea Guida n.15

Cinema al chiuso ed all’aperto, problematiche specifiche

prima stesura, di Fabrizio Calabrese

L’audio professionale vide le sue prime applicazioni proprio nei cinema, dalla fine degli anni ’20; la pellicola è stata, infatti, il primo supporto per la registrazione e riproduzione professionale del suono e solo dopo il 1950 il nastro magnetico ne è divenuta valida alternativa.
Impianti audio sofisticati ed all’avanguardia hanno accompagnato la diffusione di alcuni film, come “Fantasia” e “Terremoto”.

L’avanguardia culturale e tecnologica del mondo dell’audio per il cinema è un fatto scontato fino agli anni ’50, ma ne resta traccia ben evidente fino ai giorni odierni; per esempio il problema dei livelli eccessivi di pressione sonora sul pubblico è stato sinora affrontato autonomamente solo in questo comparto dell’audio professionale.
Quel che soprattutto contraddistingue l’audio del cinema è la presenza ed il rispetto di precisi Standard, tra cui l’ANSI/SMPTE 202M e l’equivalente ISO-2969, esaminati di seguito.

Una delle particolarità più interessanti (e meno note, all’esterno), è che l’impiego corretto degli impianti audio dei cinema presuppone che il controllo del volume d’ascolto sia fissato nella posizione prevista dallo Standard, al termine di un’accurata taratura dell’impianto, e non sia più modificato dall’operatore se non in casi eccezionali. Questo dalla fine degli anni ’70 .
La seconda particolarità fondamentale dell’audio nel cinema è quella di essere vettore, in perfetta concomitanza con la proiezione, di un preciso contenuto rappresentativo ed emozionale, che è fondato su equilibri e regole assai più precise e cogenti di quanto comunemente ritenuto.

Un esempio spiega bene: se si osserva con attenzione un filmato amatoriale, per quanto tecnicamente ineccepibile, esso mostra regolarmente una realtà “inquadrata” dal mezzo di ripresa, e del tutto distaccata da quella dello spettatore. Per evitare questo, il cinema professionale ricorre ad inquadrature continuamente variate e montate in sequenza , con spostamenti del punto di vista che seguono a volte il personaggio che parla, poi gli altri, ma sempre mantenendosi in una posizione coerente . La violazione di queste “regole” viene facilmente avvertita dal pubblico e causa un’immediata perdita di coinvolgimento , evitata quanto più possibile da registi e sceneggiatori.

Anche il commento sonoro obbedisce a precise quanto ineffabili regole, la più intuitiva delle quali è quella che vuole i livelli sonori dei dialoghi esattamente corrispondenti a quelli reali, quando non vi è musica o particolare rumore di sottofondo a competere. Diverso è, per esempio, il caso della voce fuori campo, oppure quello dei rumori prodotti da veicoli, armi e quant’altro non derivi il suo significato proprio da una precisa connotazione acustica .

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Re: Audio per il Cinema

#5 Messaggio da F.Calabrese » mercoledì 24 ottobre 2012, 11:40

Dunque il livello del parlato costituisce il riferimento assolutamente primario nell’ambito dell’audio cinematografico. Ma in quale intervallo di valori è compreso ?

Rilevando con un normale fonometro ed integrando con una costante “Slow” si rimarrà sorpresi di constatare che una normale conversazione, alla distanza di un metro, può svolgersi anche a livelli veramente minimi, cioè inferiori ai 50 dB”A” se ci si trova in un ambiente particolarmente silenzioso e poco riverberante. Nelle stesse condizioni, se si richiede ad alcuno di leggere una pagina da un testo, questi eleverà inconsapevolmente il livello, sino a valori medi di 64-67 dB”A” .

All’estremo opposto, una voce a livello superiore ad 80 dB”A” Slow può essere accettabile se rappresenta un urlo o un richiamo, oppure nel contesto di un elevato rumore di fondo (per esempio in una scena di guerra o all’interno di un autocarro), mentre è del tutto intollerabile e fastidiosa in un normale contesto comunicativo.

Un intervallo così ampio risulta decisamente critico, quando lo si va ad inserire nel contesto fisico costituito dal rumore di fondo delle sale, che raggiunge talvolta i 50 dB”A” Leq. ma scende veramente di rado al di sotto di 35-40 dB”A”. Un normale margine di 10-15 deciBel sarà infatti necessario per garantire l’intellegibilità delle consonanti. In sintesi, ancora un buon motivo per collocare il parlato ai livelli reali, con margini minimi .

Un poco di storia

Dal 1929 al 1940 l’audio nei cinema è monofonico ma di discreta qualità, sebbene vi siano ben poche pretese di eccedere i livelli del solo parlato; la gamma di frequenze trasmessa non si estende che da 100 a 5000 Hz. Nel novembre 1940 il film “Fantasia” introduce al pubblico la stereofonia e la vera dinamica del suono di un’orchestra, grazie ad un sistema di ripresa e di riproduzione del tutto unico .

I primi film stereofonici e con una certa dinamica datano agli anni ’50, quando compaiono in sequenza il Cinerama, il Cinemascope e la pellicola 70 mm, tutti con l’audio dislocato su 4-6 piste magnetiche, purtroppo costose e fragili. La prima grande crisi, negli anni ’70, portò alla relativa scomparsa del formato 70 mm. e dei supporti magnetici, ma diede impulso allo sviluppo della stereofonia su pista ottica, culminato nel formato Dolby SVA, del 1977.

A quest’epoca risale la pratica tecnica di tarare il livello d’ascolto in sala su un segnale di riferimento (Rumore Rosa ad un livello di 85 dB”C” Slow) e si affaccia all’attenzione il problema della dinamica. Sino ad allora, infatti, erano state le caratteristiche tecniche del mezzo di registrazione, cioè della pista ottica, a determinare gli angusti ed obbligati limiti operativi.

Anche la pubblicazione di un primo Standard, nel 1938, non poté che recepire l’esistenza di questi limiti, traducendoli in una curva di equalizzazione delle alte frequenze poi nota come “Academy Curve”, che in pratica prevedeva la filtratura (in sala), di gran parte delle frequenze alte al di sopra dei 5 KHz., in modo di ridurre per quanto possibile il livello del fruscìo.
Naturalmente i fonici tendevano a compensare in sede di registrazione la presenza dell’Academy Curve, enfatizzando queste frequenze fino a raggiungere i limiti di saturazione della pista ottica.

L’introduzione dei sistemi di compressione e successiva espansione, cioè del Dolby “A”, nel 1977, consentì un primo incremento di dinamica, valutato nell’ordine di circa 10 deciBel in gamma media e bassa, e di circa 30 dB in gamma alta, a 16 KHz. Quest’incremento venne tuttavia utilizzato soltanto per limitare il livello di fruscìo in sala, senza dunque aumentare i livelli massimi d’ascolto.

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Re: Audio per il Cinema

#6 Messaggio da F.Calabrese » mercoledì 24 ottobre 2012, 11:42

Questo si spiega facilmente con il costo e la relativa indisponibilità di amplificatori realmente potenti: con i circuiti a valvole (ancora ben diffusi nei cinema degli anni ’70), era assai difficile superare la soglia dei 50-75 Watt senza moltiplicare, oltre il ragionevole, costi, peso ed ingombro.

I trasduttori impiegati nei diffusori dell’epoca erano progettati e realizzati nella prospettiva di ottenere il massimo rendimento di conversione, impiegando trombe di grandi proporzioni, ma con bobine mobili leggere e termicamente assai delicate .

Le sale erano tuttavia molto più grandi delle attuali: in media avevano una capienza di 600-800 posti, con una lunghezza di 20-25 metri, da sonorizzare con un amplificatore da 40 Watt ed un diffusore di rendimento pari a 106 deciBel per 1 Watt ad 1 metro. In termini quantitativi, calcoleremo 26 deciBel di attenuazione per divergenza del fronte d’onda (a 20 metri), e 19 deciBel di incremento per la potenza di picco erogabile dall’amplificatore : 106  26 + 19 = 99 deciBel di Picco Lineare, escludendo il contributo aggiuntivo causato dalla presenza del campo riverberato.

Qui va sottolineato che in campo cinematografico è da sempre valida la sana e lucida consuetudine di non fare affidamento sul contributo del riverbero nel dimensionare gli impianti: molti dei suoni tipici del cinema sono infatti di brevissima durata e dunque decadono assai prima del tempo necessario all’instaurarsi di un vero e proprio campo diffuso e riverberato, specie nelle grandi sale di un tempo .

Ora è il momento di introdurre un fattore di correzione di grande utilità e tuttavia di facile verifica, disponendo di un moderno fonometro: per il parlato non compresso, la differenza tra il valore del Livello di Picco Lineare e quello del Livello Equivalente ponderato “A” ed integrato “Slow” (o per intervalli di campionamento di un secondo) è tipicamente pari a 20 deciBel o poco più.

Dunque ad un livello di Picco Lineare massimo di 99 deciBel corrisponde un Livello Equivalente ponderato “A” (o “Slow”) di 79 dB”A”, appena sufficiente a riprodurre le grida in scene d’azione, ma sicuramente ben al di sotto di quanto richiesto per riprodurre i normali rumori ambientali.

Queste erano, tuttavia, le potenzialità tipiche degli impianti audio fino agli anni ’70.

C’era poi un altro importante motivo a non incoraggiare un incremento nei livelli massimi di ascolto in sala, che richiede un piccolo approfondimento psicoacustico e progettistico. Fino alla fine degli anni ’70 i diffusori impiegati nei cinema erano tutti del tipo con caricamento a tromba, sia per le basse che per le alte frequenze. Per riprodurre frequenze alte fino ad oltre 5-6 KHz. occorrono drivers con elevati fattori di compressione, che per questo sono tuttavia inadatti a riprodurre frequenze inferiori a 4-500 Hz.: questa è infatti la frequenza di taglio tipica nei cinema.

Ma una tromba per le basse frequenze che possa rispondere efficientemente e linearmente fino a 500 Hz non può che essere diritta, poiché anche una sola piegatura creerebbe riflessioni ed irregolarità di risposta ben udibili. Ma una tromba diritta che estenda la sua risposta in basso al di sotto di 70-80 Hz. deve essere necessariamente lunga almeno un metro e mezzo, caso in cui si va però a sacrificare la dispersione alla frequenza di taglio superiore (500 Hz), oltre ad avere non pochi problemi di posizionamento alle spalle dello schermo… Ecco dunque spiegate le corte trombe degli impianti dei cinema dagli anni ’40-‘50 alla fine degli anni ’70; per quanto questi diffusori avessero coni leggeri ed ampi volumi posteriori accordati,

c’era ben poco da fare per estenderne in basso la (risposta)

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Re: Audio per il Cinema

#7 Messaggio da F.Calabrese » mercoledì 24 ottobre 2012, 11:44

risposta.

Chiunque abbia ascoltato ad alti livelli (oltre 90 dB”A”) un diffusore la cui risposta non scende al di sotto di 70-80 Hz sa che l’esperienza d’ascolto è quanto mai spiacevole (il suono è stridente ed aggressivo, ma non emozionante); così (male), suonavano anche i primi impianti da discoteca, nei primi anni ’80 e non è affatto un caso che i livelli d’ascolto in pista fossero, all’epoca, di parecchi deciBel inferiori agli attuali, senza che alcuno avesse a lamentarsene.

La svolta del Dolby Spectral (SR)

Il primo formato di registrazione/riproduzione ad innescare l’escalation dei livelli d’ascolto nei cinema è il Dolby Spectral (detto anche “SR”), presentato nel 1987 e diffusosi poco dopo.

Questo formato fu anche responsabile del rilancio delle sale, supportato dall’uscita di un numero di film particolarmente spettacolari, in cui il coinvolgimento emotivo del pubblico era aumentato proprio dagli elevati livelli d’ascolto, specie alle basse frequenze, sconosciuti in ambito domestico.

Pressoché tutte le sale rinnovarono gli impianti audio, grazie anche alla presenza di cospicui incentivi, e si diffuse una nuova configurazione di diffusori, con la gamma bassa affidata a due trasduttori da 15”(39 cm.) in radiazione diretta, ed il volume posteriore accordato in bass-reflex.

La risposta di questi diffusori si estendeva finalmente al di sotto dei 40 Hz, con un rendimento di poco inferiore ai 100 deciBel per 1 watt ad 1 metro. Gli amplificatori a valvole erano da tempo scomparsi, ed erano stati sostituiti da ampli a transistor potenti anche 250-350 Watt per canale, impiegati non più in mono, ma in stereofonia (a tre canali) ed in biamplificazione.

Un tipico impianto con tre canali retroschermo, Surround e subwoofer, poteva facilmente superare i 2500 Watt, cioè 37 deciBel al di sopra del riferimento (1 Watt).
Le grandi sale di una volta lasciano spazio alle multisale, con capienze dai 100 ai 3-400 posti e distanze interne dell’ordine di 10-16 metri, cioè in media 22 dB di attenuazione per divergenza.
Sommando il tutto abbiamo 100 – 22 + 37 = 115 deciBel di Picco Lineare massimo, cioè un incremento di 16 dB, ovvero di 40 volte in potenza, da destinare tutto a favorire più alti livelli di adrenalina in sala.

Come ogni altra “rivoluzione” tecnica in ambito cinematografico, anche questa avvenne con estrema gradualità: se infatti le nuove pellicole ad ampia dinamica fossero state proiettate fin dall’inizio nel gran numero di sale che ancora dovevano adeguarsi al nuovo formato, di certo ne sarebbero nati non pochi problemi, di affidabilità e distorsione.

Qui occorre approfondire un ulteriore aspetto distintivo del mondo dell’audio per il cinema: la presenza dei cosiddetti “processori”.
All’epoca del cinema mono, lo schema degli impianti audio delle sale era semplicissimo: in pratica il sensore consisteva in una cellula fotoelettrica, la cui debole uscita era preamplificata e quindi inviata direttamente all’amplificatore di potenza (il tutto a valvole) e da questo al diffusore, le cui due vie erano separate da un filtro di crossover passivo, con il tipico taglio a 500 Hz. tra bassi e medio-alti.

Ogni intervento di compressione della dinamica doveva essere operato a monte, cioè in sede di registrazione ed assemblaggio della colonna sonora; gli interventi erano rari e, solitamente, eseguiti manualmente, dal fonico che sovrintendeva il missaggio finale della colonna sonora.

Ben diversa la situazione dopo l’avvento del Dolby “A”, ed ancor più dopo il Dolby “SR”.
Entrambi i sistemi prevedono una codifica ed una successiva decodifica di tipo automatico, con una velocità d’intervento elevatissima: la compressione è effettuata prima della stampa della pellicola da inviare nelle sale, mentre l’espansione è effettuata appunto dal “processore”, cioè da un preamplificatore assai più complesso e specifico. Perché la qualità e la dinamica del suono siano mantenute integre è assolutamente necessario che i due procedimenti di codifica e decodifica siano

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Re: Audio per il Cinema

#8 Messaggio da F.Calabrese » mercoledì 24 ottobre 2012, 11:47

assolutamente identici e perfettamente complementari.

A differenza del vastissimo mercato dell’audio domestico, ove la restrizione di un particolare brevetto avrebbe di certo limitato la diffusione di qualsiasi tecnica di compressione/espansione, nel piccolo mondo del cinema professionale si instaurò presto una specie di monopolio, che, in varia forma, persiste a tutt’oggi. In pratica accadde che, in luogo di un procedimento di codifica/decodifica semplice e realizzabile da qualsiasi fabbricante, se ne impose uno assai più complesso ed integralmente coperto da brevetti (il Dolby A). Per decodificare correttamente le pellicole distribuite nel formato Dolby A occorreva necessariamente il processore Dolby, che infatti divenne presto uno Standard anche più rispettato delle stesse norme tecniche ISO/SMPTE.

Ancora più complesso, il formato Dolby SR escludeva completamente la possibilità di alternative.
Per affermare e diffondere questo vero e proprio Standard internazionale venne creata una interessante sinergia culturale tra i supervisori della Dolby ed i tecnici addetti alla installazione ed alla manutenzione degli apparati nelle sale; questi ultimi partecipavano a corsi di aggiornamento in cui, oltre ad apprendere delle caratteristiche dei nuovi processori, venivano discusse ed approfondite le problematiche di progettazione, realizzazione e taratura degli impianti audio .

Dallo scambio di conoscenze ed esperienze, necessariamente bidirezionale, derivò una prima “soluzione tecnica” al problema dell’incremento della dinamica nelle colonne sonore ed alla conseguente maggiore sollecitazione degli impianti nelle sale. In ogni processore Dolby SR era comunque presente una possibilità di decodifica mediante il precedente formato Dolby A.

Ma la colonna sonora ottica è unica, e da una certa data in poi la pratica totalità è stata codificata in formato Dolby SR. Le pellicole anteriori potevano tuttavia essere lette correttamente, azionando la decodifica Dolby A nel processore, in sala.

Ma cosa accade se una pellicola in formato Dolby SR viene decodificata nel formato Dolby A ?
Entrambi i sistemi di codifica/decodifica operano mediante una compressione multibanda del segnale registrato, seguita da un’espansione complementare in sede di riproduzione; la maggiore dinamica consentita dal formato Dolby SR (con lo stesso tipo di pista ottica), non può che derivare da una maggiore compressione in registrazione, rispetto a quella adottata per il formato Dolby A . Se però una colonna sonora, più compressa, viene decodificata mediante un procedimento che ne ricostruisce solo in parte la dinamica, allora il risultato sarà quello di una sostanziale compressione dell’intervallo tra i passaggi a basso livello e quelli di livello elevato.

Esattamente quello che era necessario per rendere compatibili le nuove colonne sonore con i vecchi impianti, dimensionati ancora per l’audio monofonico e compresso degli anni pre-1988…

I formati Dolby Digital, DTS, SDDS

Nel 1992 tre nuovi formati, questa volta digitali, vengono a mutare profondamente il contesto tecnologico degli impianti audio nelle sale cinematografiche. Il ritardo con la diffusione domestica dei Compact-Disk è spiegabile facilmente: nel cinema occorrono più di due canali e la pellicola mal si presta alla registrazione dell’immenso flusso di dati numerici tipico dell’audio digitale.

La soluzione a questo problema sarà frutto di una ricerca ai più alti livelli sia della tecnologia che della psicoacustica, che culminerà nella formulazione dei sistemi “Perceptual Coding” .

Alla base vi è un limite apparentemente insormontabile: per codificare digitalmente un segnale audio con una banda estesa fino a 20 KHz. e con un intervallo dinamico di 120 deciBel occorre un

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Re: Audio per il Cinema

#9 Messaggio da F.Calabrese » mercoledì 24 ottobre 2012, 11:49

flusso di dati superiore a 44 KHz.20 Bit = 880 Kbit per secondo per ogni canale audio; troppo per una pista ottica, se vi si devono registrate tre canali retroschermo, due Surround e gli effetti.

In sintesi, il Perceptual Coding si avvale della potenza di calcolo dei moderni processori per scremare dal flusso di dati esattamente quella parte che anche il sistema uditivo umano normalmente ignorerebbe; dunque si tratta di un sistema di codifica che elimina alcuni dati (molti), che quindi non potranno più essere ripristinati in sede di decodifica.

Il vantaggio è quello di ridurre la quantità di dati digitali di 10-12 volte.

La complessità della tecnologia digitale ha aggravato il problema del monopolio causato dai brevetti; nel campo dell’audio domestico si è addivenuti (per necessità), ad una relativa liberalizzazione dei sistemi di decodifica, inclusi i sistemi con perceptual coding, come l’MP3, mentre in campo cinematografico la soluzione è stata quella di far convivere tre sistemi in concorrenza: il sistema Dolby Digital (i cui dati sono registrati negli spazi della pellicola compresi tra le perforazioni), il sistema SDDS, che prevede una pista a lato della perforazione, ed il sistema DTS che, come ai primordi del cinema, prevede una semplice traccia di sincronizzazione, mentre l’audio è registrato su CD e riprodotto da lettori sincronizzati. Tutti e tre i sistemi operano con il perceptual coding, sebbene con algoritmi di codifica e decodifica assai differenti e proprietari.

La precedente diffusione nella massima parte delle sale del sistema Dolby SR ha fatto da volano ad un corrispondente successo per il formato Dolby Digital, che si è affermato anche come formato obbligatorio per i supporti domestici ed a noleggio (DVD).

La differenza tra i sistemi analogici (SR) e quelli digitali con perceptual coding, in termini di dinamica, è elevatissima e facilmente avvertibile all’ascolto.

I sistemi analogici, infatti, fronteggiano l’esistenza di limiti superiori (= distorsione) ed inferiori
(= rumore) per la dinamica, adattando il guadagno del sistema in modo di contenere il segnale entro questi limiti, in registrazione, e ricostruendo possibilmente i livelli originali in sede di decodifica.
Il tutto è penalizzato dalla difficoltà ad intervenire con la necessaria velocità, alterando le forme d’onda, il che comporterebbe udibili distorsioni , e comunque dalla necessità di contenersi, alla fine, entro gli angusti limiti della registrazione su pista ottica.

I sistemi digitali trasformano dapprima il segnale analogico in una sequenza di dati digitali: questo può essere oggi operato con una risoluzione anche superiore ai 20 bit, cioè entro un intervallo dinamico di ben 120 deciBel, e fino alle più alte frequenze udibili. Ogni compressione, codifica percettiva o altro intervento, è effettuata a livello numerico, quindi in condizioni di poter analizzare il flusso di dati prima di operarvi alcun intervento, dunque potendone graduare l’intensità al punto di evitare distorsioni ed artefatti udibili, oltre ad eliminare (solo) le informazioni ridondanti.

Oggi come ieri, tuttavia, gli impianti audio, a valle del processore, presentano ben definiti limiti.

Le potenze di amplificazione sono aumentate, a parità di costo, e non è raro riscontrare sale cinematografiche da 500-600 posti con impianti audio che superano i 20.000 Watt RMS.

I trasduttori, specie quelli per le basse frequenze, sopportano oggi anche potenze unitarie dell’ordine di 1-2 Kwatt (RMS), con rendimenti dell’ordine dei 100 dB per 1 Watt ad un metro.

Soprattutto la risposta in frequenza dei subwoofer raggiunge facilmente i 25 Hz, a volte i 20 Hz.
In una sala lunga 16 metri (-24 dB ref. 1 m.), con 40 KWatt di picco (+ 46 dB ref. 1W) e con circa 100 dB/1W/1m. di rendimento, si ha un potenziale di 100 – 24 + 46 = 122 deciBel Lineari di Picco. Questo è il tipico livello di picco riscontrabile nelle sale digitali correttamente tarate.

In sintesi, il maggiore potenziale dinamico delle colonne sonore digitali è stato utilizzato solo in

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Re: Audio per il Cinema

#10 Messaggio da F.Calabrese » mercoledì 24 ottobre 2012, 11:51

parte per elevare i livelli sonori di picco in sala, limitati dalle pure elevate potenzialità degli impianti, mentre la quota residua è andata ad eliminare del tutto il fruscìo, oltre che a conferire maggiore naturalezza ai dialoghi ed ai rumori d’ambienza a bassissimo livello.

Il problema del fastidio agli alti livelli

Già poco tempo dopo l’introduzione del formato Dolby Spectral (SR) sono apparsi sulla stampa numerosi commenti fortemente critici nei confronti dei livelli eccessivi di alcune colonne sonore, specie di film d’azione. Si trattava spesso di riedizioni di film già presentati, il che spiega.

Quando infatti una colonna sonora è stata registrata originariamente per un formato audio dinamicamente limitato (come l’Academy Mono o il Dolby A), il livello di voci e rumori è stato allineato (di necessità) in modo di utilizzare al meglio le risorse disponibili, cioè in pratica collocando la voce in modo che i passaggi al più basso livello fossero bene intellegibili al di sopra del rumore di fondo della sala e del fruscìo, mentre ai rumori veniva assegnato il massimo livello indistorto consentito dal formato. In proporzione il livello dei rumori era fortemente penalizzato.

Trasferendo una simile colonna sonora in un nuovo formato, di maggiore dinamica, non si può far altro che mantenere le proporzioni originali: se infatti si elevano i livelli dei rumori delle scene d’azione, le voci che intervengono durante le stesse scene appaiono urlate e fastidiose, a meno di continui riaggiustamenti, spesso omessi in sede di produzione in quanto richiedevano il completo remissaggio della colonna sonora, oltre ad essere talvolta non realizzabili con adeguata precisione.

Oggi, in epoca di pressoché completa diffusione dell’audio digitale in tutte le sale, accade qualcosa di simile quando la colonna digitale si usura o si sporca, caso in cui il processore commuta automaticamente sulla colonna ottica, che funge da riserva di sicurezza. Alcune produzioni curano di assemblare due colonne sonore diverse e correttamente allineate, una analogica e l’altra digitale, in cui a quest’ultima soltanto sono concessi i picchi più elevati nelle scene d’azione.

In altri casi, per spedire le operazioni e/o per contenere i costi di produzione, si mette a punto la sola colonna sonora digitale, ricavando quella analogica da una semplice compressione della prima, fino a che rientri nei limiti della pista ottica.
Il procedimento è delicatissimo ed aperto a grossolani errori. L’errore più tipico è quello di operare una compressione generalizzata, elevando i livelli dei passaggi più lievi per portarli al di sopra del fruscìo e comprimendo i passaggi ad alto livello: se si fa questo senza lasciare intatto l’intervallo della voce, i dialoghi possono venir compressi ad un livello innaturalmente più alto di quello originale. Di qui il fastidio.

Anche le scene d’azione possono risultare assai più fastidiose se l’audio è compresso nei picchi ma elevato nel livello medio, come accade assai spesso.
Ancora un’occorrenza tutt’altro che infrequente è quella per cui un film viene prodotto e valutato impiegando impianti audio ben dimensionati e tarati, ma poi è riprodotto in sale con impianti più limitati e con tarature approssimative: in questi casi sono spesso le distorsioni causate dal clipping degli amplificatori o dalla saturazione precoce alle basse frequenze a rendere fastidioso l’ascolto.

Le norme ANSI/SMPTE 202M e la ISO 2969

Quando, alla metà degli anni ’70, apparve evidente che la curva di equalizzazione in uso dal 1938 era ormai troppo ed inutilmente penalizzante, specie per la risposta alle alte frequenze, fu la stessa Dolby a favorire la diffusione di un nuovo Standard di taratura delle sale, formalizzato assai più tardi nella norma ANSI/SMPTE 202M e nella corrispondente ISO 2969. Di fatto i processori Dolby analogici impiegavano tutti un tipo di compressione/espansione non lineare su tutta la gamma dei livelli, ma efficace selettivamente sui segnali deboli: questo rendeva assolutamente necessario l’allineamento dei livelli di codifica e decodifica. Come segnale di riferimento venne scelto il Rumore Rosa, e come livello di taratura (un semplice riferimento), venne adottato il valore di 85 deciBel con ponderazione “C” e costante di tempo “Slow”. I due Standard sopra citati recepirono

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